Galleria X3

Fotografia contemporanea

LUCA LO IACONO | BARFLY WAY


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Trovai l’ultimo bicchiere di vino mescolato a cenere di sigaro e tristezza.
[Charles Bukowsky]

La fotografia è sempre [un sempre non eterno, ma con le disfunzioni di una temporalità  che possiede i suoi imprevisti] statica. Essa è “senza avvenire” perché non si proietta in avanti, ha una “compiutezza insopportabile”, rende tutto finito e spezza l’incanto del divenire. Ciò la rende consapevolmente tragica e tuttavia sfodera la forza intrinseca di un medium che blocca il ricordo, sostiene l’ineluttabilità, vieta la possibilità  di sottrarsi, di svicolare, di ingannare la memoria. La fotografia è quindi malinconica perché essa si colloca nella soglia di passaggio tra la vita passata e l’impossibilità  del futuro. Guardo le fotografie di Luca Lo Iacono, una dopo l’altra cercando di comprenderne la struggente verità  che esse nascondono. Vorrei farmi suggerire da esse le parole esatte, ma sarebbe dilettantesco crederlo possibile. Poi scopro che mi appaiono “incompiute”, non sono statiche, non rinfacciano la morte. Nell’intensa serie di fotografie che compone il ciclo Barfly Way, Luca Lo Iacono sfugge proprio a quella determinatezza cui faceva riferimento Roland Barthes. Le immagini diventano fuggevoli, la transitorietà  si nasconde ad ogni angolo e quella magica evanescenza di cui sono pervase trasforma la parola “fine” in “cosa succederà  dopo”; c’è una storia oltre, ancora da venire, un movimento che supporta tutto l’agire nascosto dentro le immagini. Lo sguardo liquido scioglie i contorni, affievolisce la durezza delle notti solitarie per renderle pi๠docili al tempo che trascorre con sofferenza. L’occhio vacilla, si sposta dall’alto in basso, incapace di trovare l’equilibrio del raziocinio; le cose attraversano velocissime il fronte della visione, lasciando scie, lunghissime scie, come una scia è il ricordo di quel dolore che brucia dentro e a spegnerlo ci pensa soltanto mezzo bicchiere di miele amaro, quello che brucia le budella ma porta sollievo alla mente. Gli scatti di Luca, dentro il nero spesso dei contorni simili a cornici che sembrano voler preservare il racconto da un possibile sfaldamento, suggeriscono un’estetica che si delinea tra inquadrature spaziali e dimensione psicologica. Dominate dalla scala dei grigi, le fotografie sono tagliate da netti contrasti di bianco e nero, le coordinate spaziali, le diagonali o le verticali, spezzate da improvvisi bagliori di luci (fari di auto che arrivano improvvise nella notte, le luci di due lampade sul bancone di un bar, insegne accese e la luce dei lampioni) come a voler accecare gli sguardi degli usurpatori. Luca realizza i suoi scatti tra Palermo, Roma e Parigi, ma le situazioni appaiono identiche: poche anime sparse si lasciano trasportare per le vie deserte delle città , poche ombre fugaci di un’umanità  fantasmatica, affogata nell’oscurità  dei propri pensieri, attraversano gli spazi senza lasciare traccia di sé, neanche l’impronta di un ricordo. Uomini e donne strappate alla loro routine di solitudine, si svelano come sfocate apparizioni nella vita di altri, ma spesso sono di passaggio pure nella loro. Vi si ritrova la dimensione più intima, quella che non può essere fissata da nessun obiettivo, naturalmente schiva per effetto di un’evidente ritrosia a comunicare. La bravura di Luca e la bellezza delle sue fotografie sono qualità  espresse proprio dal carattere simbolico di queste immagini, rese filtro di atmosfere altrimenti irrappresentabili. Forme simboliche, appunto, di un linguaggio in cui la luce intrappolata diventa guida nelle penombre dell’esistenza.

Emilia Valenza

1 R. Barthes, La camera chiara, PBE