Galleria X3

Fotografia contemporanea

PALERMO CORDOBA ANDATA E RITORNO


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CAYETANO ARCIDIACONO

Stordimento e vertigine sono le prime sensazioni che si provano di fronte alle fotografie di Cayetano Arcidiacono, per il loro sommesso modo di comunicare, per la tensione degli opposti, per il baluginare improvviso di effetti luministici che affiancano la realtà incontrastata delle cose. Lo stordimento accade di fronte alla tensione generata dal bianco e nero, contrasto, dualità che provoca un fecondo disorientamento di fronte all’impossibilità di optare per l’uno o per l’altro campo cromatico. Essi si danno nella loro immediatezza, si fanno portatori sani di un messaggio che non ha bisogno d’intermediazioni, perché appare diretto, puro, privo di sotterfugi, sfrontato. Il bianco e il nero spingono fino al limite estremo il loro potere evocativo e comunicativo, perché si situano ai poli opposti dello spettro ottico e condensano il tutto e il niente della luce visibile. Nella dicotomica trattazione delle immagini di Arcidiacono, il gioco degli estremi riesce sempre a creare atmosfere rarefatte e sospese, mentre tutte le varianti del grigio intervengono nei margini della visione, per ponderare la luce, per smaltire il buio e rendere l’immagine assolutamente equilibrata. La vertigine ci prende quando le forme prese in prestito al mondo naturale, piante, pietre, animali, oggetti ci appaiono in una dimensione alterata, trattati in maniera seducente, aumentati di scala, scoperchiati nella loro intima essenza, analizzati nelle loro qualità materiche, tanto da perdere quasi la loro veste abituale per assumerne un’altra più poetica ed evocativa. Il manto maculato di un cavallo si trasforma nel dosso di una collina, la superficie dell’acqua increspata da una sottile brezza diventa terra lavorata prima della semina, un leggero telo di nylon acquista la vaporosità della brina mattutina. E non ci sono soggetti che prevalgono su altri, tutto ciò che rientra nello sguardo svolge un ruolo principale nella visione, serve a creare quell’equilibrio formale che è essenza della fotografia di Arcidiacono. Le fotografie dell’artista siculo-argentino costituiscono un piccolo estratto dell’intera opera di Cayetano, che dagli anni Settanta in avanti ha realizzato una serie composita di immagini di paesaggio, nature morte, ritratti, astrazioni. La riflessione estetica che sottende lo sguardo compositivo emerge sempre con estrema chiarezza: la ricerca di una strutturazione dello spazio, attraverso linee che ne delimitano orizzontalmente, verticalmente o in diagonale la costruzione visiva; l’assenza di “effetti” artificiali, utilizzati per modificare l’originaria naturalità e al contrario l’esaltazione della mutevolezza, dello “straordinario” insiti nelle cose stesse, operazione tutta dentro il processo “natura naturans”: il medium della fotografia serve a concentrare lo sguardo sulle infinite possibilità che il mondo pone in essere, serve a compilare un vocabolario di forme nascoste che attendono di essere svelate, al fine di mostrare dettagli, profili, trasparenze, texture, altrimenti impossibili da scorgere. La fotografia come la pittura, disvela il mondo invisibile, penetra in quel territorio dell’esistenza segreta, sfonda la parete che ci separa dalla realtà interiore per penetrare nelle pieghe di una realtà metafisica. Chiarezza e semplicità compositive sono le linee guida di tante fotografie dove il soggetto centrale dell’immagine perderebbe di senso se non lo si considerasse in stretto rapporto con l’inquadratura prospettica o gli effetti di trasparenza. Nella precisione del dettaglio ritroviamo la grande lezione di Andreas Feininger o di Edward Weston, rielaborati in un linguaggio che Cayetano ha sperimentato in oltre quarant’anni di fotografia con estrema coerenza, per giungere ad uno stile asciutto e potente, assolutamente personale. ANGELO PITRONE “La sicilianità sentita come privilegio e come limite” scriveva Dino Messina sul Corriere, cogliendo il senso vero di un’identità spesso pesante da difendere o coltivare. Angelo Pitrone ha dedicato decenni della sua attività di fotografo alla ricerca di una “sicilianità” dello sguardo, indagando tra le smorfie di un paesaggio che pare raccontare una primordialità mai superata, osservando abitudini e atteggiamenti di un popolo sopraffatto dagli eventi che paiono non lasciare reale traccia, indagando tra i segni e le orme lasciate dal tempo, di una storia che va avanti senza avanzare. La selezione di immagini presentata in questa mostra accoglie opere realizzate dal 2005 ad oggi, singolarmente estrapolate dalle serie Cutusio, Linea di Terra, Viaggio d’acqua e della più recente Lo sguardo obliquo. Si è voluto riunire fotografie scattate in epoche diverse e con finalità concettuali differenti in un nuovo insieme, che permette di estendere la nostra riflessione verso territori forse ancora non del tutto inesplorati. Lo sguardo obliquo di Angelo Pitrone si sostanzia nel fissare indizi, scorci, dettagli, visioni, che colpiscono, non tanto per la loro aderenza alla realtà , quanto per la potenzialità “pittorica” delle stesse. Il processo compositivo, o meglio, l’approccio visivo che porta il nostro fotografo a fissare questi lembi di vissuto, astratti o figurativi, nel loro apparire quotidiano, non sottende alla volontà preordinata di creare un passaggio diretto tra la fotografia e alcune correnti artistiche del Novecento, risponde invece all’urgenza interiore del fotografo di trovare una Sicilia altra, appunto “obliqua” allo sguardo che dell’isola solitamente si impone. Ecco allora che queste fotografie di Angelo Pitrone ci proiettano immediatamente nelle densità materiche di maestri dell’informale, nell’atmosfera intima ed evocativa del realismo magico, nel quotidiano banalizzato del realismo postnovecentesco. “Licata 2009” propone una visione interiorizzata della dimensione religiosa che si esprime in una visione attonita del reale, nella meraviglia della luce come in un interno di Donghi o di Tozzi, esponenti italiani della stagione del realismo magico tra le due guerre. Il manifesto strappato che occhieggia sulle strade di tutte le città del mondo, non solo quelle siciliane, come in “Agrigento 2010” e “Agrigento 2009”, è prima di tutto un décollage di Mimmo Rotella o di Raymond Hains. In “Comiso strada provinciale 7” un cumulo di bidoni arrugginiti sullo sfondo di un telone incartapecorito bruciano al sole. Tutto il potenziale energetico del ferro e della plastica, che solo un grande maestro come Burri è riuscito a mostrare, si manifesta nell’evidenza materica di questa immagine, che ci conduce dentro la riflessione estetica dell’informale; come del resto “Catania 2005” suggerisce un’incursione nella pittura di Mathieu o nel dripping di Pollock. In “Mineo 2005” Pitrone scova i segni lasciati da Richard Long nelle sue note passeggiate nella natura, individuando la presenza di un solco che lega l’uomo al paesaggio in un dialogo mistico ed eterno. Di sapore squisitamente mediterraneo, riscaldate dalla vaporosità delle tinte tenui del giallo ocra e del celeste, “Cutusio 2008”, “Eraclea Minoa” e “Stazione di Butera” contengono la stessa intensa luminosità e il prezioso senso dell’infinito delle opere di Piero Guccione. Un altro possibile accostamento è ancora ravvisabile in una serie di fotografie, dove la presenza di un oggetto anonimo richiama alla memoria la pittura di Andrea Di Marco, archeologo di una modernità in disuso. Angelo Pitrone ci consegna scatti non comuni come “Trapani 2006”, “Mazara Cantiere Navale”, “Canicattì strada statale 123”, “Mineo 2005” o la straordinaria “Comiso”, dove l’immagine di una rotonda stradale osservata attraverso i vetri sporchi di una garitta, ci conduce in un viaggio attraverso quella “sicilianità” che si fa profonda ispirazione e sostanza pittorica.

Emilia Valenza